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Sull’onda dell’orgasmo si apre questo pensiero: che sono molto più di quello che sono (diventata). Quanto mondo lasciato fuori. E questo di-più che avverto, questa esclusione provoca un lamento viscerale.

Riconoscimento

Mi sembra quasi che tutto il mio lavoro con l’argilla sia al servizio di momenti come questi, in cui sgorga un riconoscimento. Ed è proprio uno sgorgare, un fuoriuscire di materia liquida che rompe cateratte e si manifesta. Concretamente è un pianto soffocato che stringe l’addome. Quando lascio libera la forma di manifestarsi – supero la malìa frenante del perfetto, dell’ideale e vince la voglia di rischiare: su quel cilindro ben riuscito al tornio inizio a lavorare – sempre qualcosa accade. Non seguo nessuna idea preesistente, nessuna idea mi guida come modello, non ho progetti da realizzare, meno che meno compiti da eseguire. Mi confronto semplicemente con la forma – in apparenza silente, presenza sottotono: lascio vivere la forma. “La vita delle forme” dice Focillon, ed è un’espressione che non dice ma indica, e quel che indica mi pare di comprenderlo tutto in questi momenti. Oggi “lavorando” al mio cilindro ho realizzato che questa è la mia maniera di accettare il brutto, l’ingiusto, lo squallido. Proprio l’iniquo, ciò che sopravanza la (naturale?) aspettativa di ciascuno, e la sua capacità di conviverci. Ho bisogno di questo giro lungo, di questa ripresa letteralmente fuori luogo, perché solo questo assolve a un compito altrimenti impossibile.

Auspicio

Caro amore mio, eccoci a un altro giro di ruota. Ma non siamo su una semplice ruota, perché la rotazione cambia inclinazione, posizione nello spazio. Abbiamo i giorni e le stagioni, e poi la casa, gli affetti, la faccia dei luoghi a regalarci l’apparenza di una regolarità quasi immutabile. Così il nostro rapporto, cosa ideale e reale, ci guarda quasi da fuori come la marmorea presenza di un monumento. E come si ricorda con una festività l’evento che è stato suggellato nel marmo, così moltiplichiamo nel calendario – programmando e improvvisando – le occasioni di festa, di memoria, nel sacro dovere di onorare ritualmente la gratuità di un dono. Questo il mio augurio per noi, quest’anno: più slancio e ardore nell’attraversare i giorni per lasciarci più liberi – pacati, pieni – di sentire la gratitudine e di festeggiarla con qualcosa che ci unisca ancora di più. Sempre più realizzo come la chiave di volta di tutto l’universo umano sia la leggerezza: a ciascuno il compito di trovare la propria “dieta”.

Lucio Fontana, Concetto spaziale, Attese, 1959

Lucio Fontana, Concetto spaziale, Attese, 1959

Caffè nero

Desiderare di bere caffè nero, senza aggiunta di alcun dolce, esprime la perfetta centratura, quella lucidità che è massima vicinanza al da-dire insieme al massimo distacco. Il sole a picco, nessuna ombra, la presenza sembra questo. La mente si è schiarita a letto con Emma, aspettando che si addormentasse, dopo aver letto la storia di Leo Lionni sul topo Teodoro, l’impostore che per debolezza aveva ingannato i suoi amici per poter essere venerato come un re. Ci siamo fermate qualche momento a parafrasare la storia e il finale (il topo corse via e non si fece mai più vedere) per assimilarla meglio, e in questo breve spazio di pensiero la mente ha toccato terra, l’attrito l’ha fermata. Qualcosa è riuscito a interrompere il suo nevrotico turbinare e come la palla di terra sul piatto del tornio ha trovato la propria centratura. A me sorge l’esigenza di scrivere. Qualcosa sta premendo per farsi capire meglio e io mi devo mettere seduta per accoglierlo. Ogni cosa capìta in questo modo, trovando la giusta formulazione – esatta ovvero la formulazione di questo momento – lascia un segno, scava qualcosa da qualche parte, e si sperde. Poi càpita, dopo tempo, di rileggerla come fosse la prima volta.

Terra, Shodo - calligrafia giapponese Kanjii

Emozioni

Pensavo l’altro giorno, sulla scorta di non so più quale parola ascoltata, che le emozioni sono il modo in cui riceviamo le cose, la risonanza interiore che creano ed esse, cose, esistono solo in questo contatto che generano. Sciocco, oltre che impossibile, nasconderle tirando la tenda della mente. Ogni cosa con cui entriamo in contatto, ogni cosa che ci arriva – oggetti, situazioni, eventi, parole –  prima di diventare qualcosa d’altro, tocca, smuove, muove. È questo livello che occorre raggiungere – avvertire, riconoscere, gustare (assimilare sentendone il sapore) – per poter far nascere qualcosa di nuovo.

Moto immobile

Lavorare la porcellana a mano, come sto facendo ora, è come stare dentro un’asana in uno stato di yoga. In movimento, eppure stabili, fermi; in attività ma senza che le tensioni necessarie si mutino in rigidità (sthira sukham – Yogasutra II, 46). Ogni movimento articolare e muscolare, l’accadimento interno più silenzioso, tutto si svolge come calato in un’immobilità simile a quella di un laghetto in cui i pesci guizzano numerosi senza turbarne lo stato. Ma quel loro scivolare che li fonde con l’acqua, e la scura profondità dell’elemento, tutto si tiene abbracciato in una percezione unitaria di immoto, vivo silenzio. La porcellana non richiede un lavoro muscolare importante, come può essere al tornio, bensì un docile ascolto, una vigilanza discreta, un’intelligenza della mano e della mente pronta nel generare il gesto giusto. Come quando il cervo avvistato nel bosco ci fa cambiare passo, e sguardo, e la nostra invadente presenza svapora.

Funamboli

Ha un effetto di concentrazione straordinario lavorare con qualcosa che tiene col fiato sospeso. Come funamboli si cammina su un filo. Questo confronto continuo, serrato, ma disteso, amicale, non conquistatore mi fa camminare passo dopo passo sopra il vuoto. Lo guardo da lontano attendendo ad altro. Occupando le mani lo attraverso. Piano piano la mente affollata di scopi e desideri scala la marcia, assorbe la potenza che la faceva carburare, lentamente si acquieta, e rimango così, ancora una volta sospesa, ricolma di gratitudine.

H. Matisse, Danse I (1909), Moma, NY

H. Matisse, Danse I (1909), Moma, NY

Avvinta

Quando lavoro la porcellana preferisco la mano al tornio, e le dita che la pizzicano alla mano che con fatica sul tavolo la spiana. Quando la trasformo non riesco a non ricercare la parvenza della stoffa, la trasparenza di una trama o il movimento di un velo increspato dal vento. Per me la porcellana è pelle: una pelle di luna sottile come la superficie del legno di betulla. Pelle senza corpo, che solo l’aria anima. E le forme appena accennate in cui l’aria si incava, destinate a dissolversi e trapassare in altro, la porcellana le trattiene, le immobilizza, le eterna. E’ la capacità di rivelare questa polarità (l’inconsistenza dell’istante, l’immobile eternità) ciò che della porcellana mi ha avvinto.

Sorpresa

Essere tornata al tornio dopo due settimane di lavoro a mano sulla porcellana ha segnato un cambio di registro. Da un processo relativamente controllabile o governabile al far fiorire la porcellana al ritmo meccanico, certamente modulabile ma fisso, del tornio.

Qualcosa è scattato in questo passaggio e qualcosa in me si è disposto per poter accettare la natura instabile, irregolare, furiosamente seduttiva di questa terra ricettiva e pudica, senza forzarla in schemi estranei. La porcellana ti porta dove vuole lei. Forse anche la visita alla mostra di Medardo Rosso ha contribuito a farmi cambiare occhio. Tanto che una ciotola tecnicamente ben riuscita è rimasta lì muta, senza dirmi niente. E sono fioriti pensieri vergini come in un prato di primavera.

Medardo Rosso, Madame Noblet, gesso 1897

Medardo Rosso, Madame Noblet, gesso 1897

Malattia

I primi giorni in cui c’era febbre, la mente riusciva ancora a rimanere ancorata alla realtà – le cose in corso, le cose da fare; durante i molti riposi riuscivo a pensare, scrivere, fare qualche esercizio fenomenologico di osservazione dell’oggetto: una smaltatura, un effetto estetico, con un interesse che aveva ancora presa su di me. Ho letto, con gli occhi che mi pizzicavano dalla febbre, L’elogio della mano di Focillon. Poi, piano piano la misura si è colmata e ho cominciato a girare a vuoto. Le ore sapevano di noia. Con il fisico estenuato che mi permetteva di fare poco o niente, la mente si è sganciata via via dalla routine ed è diventata una scimmia che non riusciva a trovare pace. A un tratto ti accorgi che la breve malattia ti ha prostrato, le forze fisiche e le forze morali. Una nuvola nera mi avvolge, mi fa dubitare, mi toglie la spinta necessaria a riprendere. E perfino stamane, che avevo di nuovo tempo, non sono riuscita a tornare ai miei lavori. Un sorprendente disamore me ne tiene ancora lontana.

Mark Rothko, Untitled (study for Seagram mural) 1958-9; Tate Modern, London